Un patto per il lavoro e lo sviluppo che non può più attendere
Di Simone Gamberini, presidente Legacoop
L’Italia entra nell’autunno con un’economia in apnea. Dopo un primo trimestre positivo (+0,3% di PIL), il secondo ha segnato una battuta d’arresto (-0,1%), e le previsioni per il 2025 parlano di una crescita che si fermerà attorno allo 0,5%.
Troppo poco per un Paese che dovrebbe risalire la china, mentre dazi, conflitti e consumi deboli ne frenano il passo.
Non usiamo giri di parole: le esportazioni italiane verso gli Stati Uniti, dopo un boom di inizio anno dovuto all’“anticipo” sugli aumenti dei dazi, hanno subito un contraccolpo nel secondo trimestre. Con tariffe che passano in media dal 2,2% al 16%, l’impatto stimato sul PIL italiano è di una perdita tra 0,4 e 0,5 punti percentuali nel biennio. Allo stesso tempo, i consumi interni non trainano la crescita: le famiglie, colpite da anni di inflazione, risparmiano più che spendere, con una propensione al consumo ancora sotto i livelli pre-pandemia. Notoriamente, l’indice della produzione industriale è in calo da due anni – e ci si augura che la lieve controtendenza di questi giorni non sia effimera -, così come gli investimenti delle aziende, che si accompagnano a dati ambigui sulle tendenze dell’occupazione.
Lo scenario geopolitico, inoltre, specialmente per quel che riguarda la collocazione e il ruolo europeo, è sempre più problematico; il nostro continente, infatti, manifesta una crisi di competitività che renderebbe urgenti scelte e politiche industriali su scala sovranazionale quali l’eliminazione delle barriere interne.
Siamo, alla luce di tale scenario, in una fase inedita e complessa, che richiede un rapido cambio di passo in Europa e in Italia, che noi intenderemmo affrontare nella condivisione di soluzioni con il governo, così come abbiamo fatto in altre fasi della storia italiana.
Per questo proponiamo un patto per il lavoro e lo sviluppo per l’Italia. Non un artificio retorico, ma un’esigenza. Perché se la crescita dipende quasi esclusivamente dai fondi del PNRR, è chiaro che il motore interno rischia di ingolfarsi. Il lavoro e la produzione non possono restare ai margini delle politiche, né essere schiacciati dall’incertezza internazionale.
Un patto, però, non si improvvisa. Deve fondarsi su responsabilità reciproche: a noi sistemi di imprese spetta investire in qualità, innovazione e sostenibilità; alle istituzioni tocca il compito di predisporre politiche industriali che non cambino a ogni stormir di fronde; alle forze sociali serve il coraggio di uscire da logiche difensive, per accompagnare i lavoratori nella transizione tecnologica e ambientale.
I numeri dicono che il tempo è scaduto: con un PIL fermo allo 0,5% e dazi che rischiano di bruciare mezzo punto di crescita, l’Italia non può permettersi di rinviare. Il patto per il lavoro e lo sviluppo non è un titolo da convegno: è l’unico modo per ridare ossigeno a un Paese che rischia di continuare a vivere di emergenze, una situazione che conosciamo bene e su cui non si costruisce un futuro stabile.